MESSNER E IL DESTINO DI CASTEL JUVAL

All’imbocco della Val Senales, sopra la frazione di Stava in Val Venosta, si erge Castel Juval, una delle più antiche e formidabili fortezze di tutta la provincia di Bolzano. Nel 1200 il maniero, coi masi circostanti, lasciava già traccia di sé nei documenti ufficiali, ai tempi in cui ne era signore Ugo di Montalban. Dall’inizio del ‘300 i nomi dei successivi proprietari di Juval ci fanno percepire l’entrata inesorabile nella zona di orbita germanica: Federico Zobl, Ludovico di Brandeburgo, Ulrich von Matsch, quest’ultimo fino al passaggio di poteri dai Tirolo ai cugini Asburgo. Nel secolo seguente Juval appartenne alla giurisdizione di Silandro, sino all’acquisto da parte di Giovanni Sinkmoser a metà del ‘500: pare che i restauri operati nel 1581 da costui abbiano dato un’idea anche all’attuale proprietario della rocca, il famoso scalatore Reinhold Messner, dimostrando come fosse possibile abbellirne l’aspetto e trasformarlo in una dimora signorile e confortevole. Risalgono a quell’epoca le torri gentilizie lungo il muro del cortile più basso del complesso, come anche la cappella di San Giorgio e gli affreschi decorativi del “Palas”, attribuiti ad un buon pittore rinascimentale; peccato che passando ulteriormente in mano ai conti Hendl e, infine, a due contadini del luogo cui questi nobili decisero di cederlo, il castello cadde in rovina, condizione solo parziale riscattata, appena nel 1925, dall’intervento della famiglia olandese Rowland. Ora Juval è forse uno dei più mirabili esempi di risanamento rispettoso delle peculiarità del monumento, in cui i segni del tempo non sono stati praticamente coperti da strati di make-up ma sfruttati per accrescere la austera presenza. A conferma e non certo a detrimento di ciò sta anche la scelta di arricchire il castello con arredi e oggetti artistici provenienti dalla tradizione nepalese, indiana, tibetana, africana e sudamericana: quella che può apparire bizzarria, infatti, finisce per aderire al vero spirito medievale, dove le fitte localizzazioni feudali rispondevano però ad un’assodata Weltanschauung grazie alla quale le persone diverse per cultura, storia, modelli di sviluppo e religioni, davano vita ad aree geopolitiche via via più ampie, a loro volta già costrette eppure ancora in grado di recuperare una sorta di totalità e di armonia interiore, presenti in un tempo lontano e ormai irrimediabilmente sbiadite. Specie di anticipazione degli armchair travelers del terzo millennio, quello che si è aperto all’insegna della paura di spostarsi fisicamente e delle nascita delle prime agenzie di viaggi virtuali, anche i signori dell’epoca rinascimentale gradivano che i loro emissari o delegazioni straniere portassero loro dall’altrove oggetti esotici recanti simboli di questi arcaici saperi d’origine mitica o esoterica, praticamente dei veri e propri souvenir dell’antichità su cui riflettere a casa propria nelle lunghe notti invernali. La bellezza di sculture, maschere rituali, monili, arazzi e costumi, ha fatto sì che il castello si trasformasse in un museo, visitabile tutti i giorni da primavera ad autunno. All’interno del muro di cinta, cominciamo a cercare il “re degli ottomila” che ci ha fissato un appuntamento e che di lì a poco troviamo nel suo appartamento privato, impegnato in un servizio fotografico per la rivista americana Vanity Fair: tra una consegna al suo domestico e una telefonata a New York in cui cerca di posticipare di un paio d’ore un suo futuro arrivo, scende nella cantina dove sono conservati tutti i suoi cimeli di arrampicatore per provare una felpa che vogliono che indossi per alcuni scatti, legata chissà a quale celebre conquista. Per l’intervista risulta invece più confortevole il clima esterno, col sole che illumina il castello sito a 1000 metri di altitudine.

Cosa l’ha spinta verso Juval e verso un intervento di recupero così singolare?
L’idea di prendere un castello in Sudtirolo l’avevo in mente da più di vent’anni, anche per tutelare quella che qui chiamano l’Heimat ma che per me è solo una parte del mio essere corresponsabile. Per salvare la bellezza di questa terra non basta parlare o scrivere degli interessanti articoli ma occorre prendere in mano le cose e fare. Io ho avuto l’opportunità di comprare questo semirudere, successivamente ho acquistato anche due masi sottostanti che ho organizzato come se ci trovassimo nel medioevo. Mi andava bene un castello che avesse mille anni di storia alle spalle, ristrutturato nel 1500 che è anche il periodo più affascinante, per poi riempirlo con tutta la mia roba, quella che mi sta a cuore e ho recuperato nei miei viaggi in tutto il mondo, inserendola come fecero in epoca rinascimentale tanti signori italiani, come ad esempio i Medici, nella cultura del posto al fine di rigenerarla e farla vivere. Questo significa che io vivo qui però mi sento cittadino del mondo: sono un europeo, un sudtirolese, ma con la testa aperta. La gente che si spinge qua, visto che questo è anche un museo, è entusiasta di quello che ho fatto, è il caso di dire così visto che tutto questo non esisteva più ed ora esiste grazie all’architettura che mi sono pensato. Lo stile che avevamo immaginato ci imponeva d’intervenire. Sotto tutela della Belle Arti e grazie ai preziosi suggerimenti del dottor Stampfer che mi ha mandato a Firenze e a Venezia a prendere visione di restauri analoghi, in modo discreto. Chi mi critica sui miei lavori di restauro deve venire qua e vedere: questo è il motivo della rabbia che nutro nei confronti dei Verdi fondamentalisti che, anziché rendersi conto di persona del lavoro che ho svolto e che personalmente m’inorgoglisce. Certo ora non ho il tempo come in passato di fare anche il manovale, portando pietre da chissà dove inserendole in questo castello che, per me, è ormai uno dei più belli del Sudtirolo.

I materiali impiegati nel restauro sono forse considerati troppo moderni?
Se si debbono intraprendere oggi grandi lavori di recupero delle vestigia del passato, questa almeno è la mia filosofia, bisogna pensare anche all’impiego di materiali nuovi, come il vetro e l’acciaio usati nelle copertura di Juval. Non è intelligente rifare una porta che non c’è più con vecchia legna recuperata da qualche altra parte e fatta sembrare ancora più vecchia. Io non lo faccio…

Quanto Le è costato semplicemente acquistare e consolidare il castello per renderlo almeno abitabile?
L’ho comprato per sessanta milioni di lire; è incredibile adesso, ma a quel tempo c’era una forte crisi e si potevano comperare alberghi per duecento milioni, si vendeva di tutto. Per mia fortuna il padrone di allora voleva liberarsene e nessuno lo voleva: sono tre sassi, una rovina che crolla, pensava la gente del posto. Poi ci ho lavorato una quindicina d’anni per dargli l’aspetto attuale ma, diciamo, il primo grande passo per renderlo almeno vivibile mi sarà costato centocinquanta milioni, ovviamente alla fine degli anni ’70. Gli ultimi ritocchi e lavoretti sono costati circa duecento milioni, nulla rispetto a quello fatto all’inizio.

Per raggiunti limiti d’età, fisici o sul piano spirituale, preferirà dedicarsi a viaggi tematicamente meno impegnativi ma retributivi sotto l’aspetto etnografico, a questa attività di promozione e salvaguardia artistica e cultural e oppure alla carriera politica che, peraltro, ha già intrapreso presso il Parlamento Europeo?
Il mio interesse politico e sempre stato vivo, a partire dal 1978 quando cominciai a discuterne con Alex Langer , ma sempre avere l’intenzione di darvi seguito con ruoli istituzionali e candidature. Nel 1999 mi hanno chiesto di presentarmi per le elezioni europee e l’ho fatto, pur senza esserne all’inizio molto contento. Ho sfruttato anch’io questo grande network di contatti che è il Parlamento. Quest’ultimo non ha in effetti grandi poteri, mi sono accorto che standoci dentro non si può cambiare il mondo ma si ha l’occasione di discutere direttamente con Commissario o il Ministro dicendogli come a te sembra meglio fare e stimolando una discussione. Ho imparato, insomma, a vivere anche in questo mondo che non era il mio. Fin dall’inizio ho detto che non sarei stato membro di partito ma una persona libera, che avrei continuato a lavorare anche al di fuori di quell’istituzione e che dal di fuori, avrei agito maggiormente che al suo interno. M’interessa di più il lavoro concreto che quello politico, per questo ho abbandonato questo “mondo”. Da ragazzo ho avuto la fortuna d’essere rocciatore, attività in cui mi sono lanciato con tutto l’entusiasmo di cui ne ero capace, poi per un motivo pratico, visto che nel ’70 ho perso le dita dei piedi e volendo continuare a restare nell’ambito della montagna, sono stato costretto a cambiare. Ho cambiato cuore e intelletto per affrontare le montagne più alte, peraltro nel pieno della mia condizione fisica. Finiti tutti gli ottomila, nonostante l’avviso contrario di chi mi stava vicino, ho saputo dire basta. Mi sono spostato verso avventure antartiche o desertiche. Poi ci sono state escursioni nel mito e nella storia, come quella alla ricerca dello yeti o sulle tracce dell’alpinista Mallory, sfruttando la mia esperienza di camminatore e alpinista. Adesso dedico tutti i miei mezzi e la mia passione allo Juval e Museo della Montagna. La cosa che vorrei fare dovrà reggere il confronto a livello mondiale, in caso contrario non poteri sopravvivere, nemmeno economicamente.

Daniele Barina