MANUELA DI CENTA

Tenace come gli arbusti che crescono sulle rocce carniche, autentica come le medaglie che porta al collo. È così Manuela di Centa: gli anni di trasferte in giro per il mondo non hanno intaccato il suo carattere e nemmeno il suo tipico sorriso. Gli occhi del pubblico si sono posati su di lei in età adulta, ma i tecnici sportivi la “coccolavano” già da ragazzina, quando a diciassette anni debuttò in Nazionale. La passione per uno sport intenso e faticoso, a stretto contatto con la natura ed i suoi umori meteorologici, si è concretizzata in una lunga serie di vittorie a livello olimpico e mondiale. Il ritiro dalle competizioni non è coinciso con una diminuzione di impegni, Manuela è costantemente in viaggio con il suo contagioso entusiasmo per tutto ciò che la vita riserva. Da un paesino abbracciato dalle Alpi alle piste più prestigiose del mondo: davvero un bel balzo d’atleta.

Quali sono state le tappe verso il successo?
Bisogna premettere che non ho mai pensato alla mia esistenza in funzione di una corsa verso la popolarità. Io ho vissuto lo sport, fin da bambina, come una grande gioia: non mi rendevo assolutamente conto che ciò che stavo facendo potesse avere un’evoluzione futura. Sentivo solo un’immensa voglia di giocare, di stare tra i miei compagni e con mio padre (che era il mio allenatore, il mio maestro di sci, il mio educatore… era tutto allora!). La società sportiva era sport, cultura, vita e, quindi, educazione. Inoltre, lo splendore della neve, del sole, l’odore delle piste, ma anche il freddo, il vento e la pioggia… tutti questi elementi sono rimasti costanti da quand’ero bambina fino a oggi. Da questi denominatori comuni è nato il piacere di fare sport, come divertimento e soddisfazione personale. Abbino a questa prima tappa il ricordo di momenti fantastici legati a mio padre: mi ha dato una libertà interiore come ragazza, nei confronti della vita, del diventare donna e perciò della diversità tra maschi e femmine… Questo è stato, come lo definisco io, un altro zoccolo duro, utile nella vita quando ci si scontra con i tabù altrui. Immaginava una giovane cresciuta nel gruppo in modo indiscriminato che si scontra con pesanti tare mentali collettive, che relegano la donna in una posizione inferiore rispetto all’uomo: o si è preparate ad affrontarle in maniera rivoluzionaria oppure si subisce. Io ho scelto, perché mio padre mi aveva impostata in questo modo, e mi sono sforzata di ottenere una mutazione culturale, aldilà dei risultati agonistici. Una delle strade più belle che ho aperto nel mondo dello sport consiste nell’attenzione attirata sulle donna che si dedicano allo sci di fondo: prima non erano nemmeno considerate, anzi se ne parlava come di brutti maschiacci, come di prototipo di anti-femminilità. Forse questo è il risultato più bello che io ho ottenuto nell’arco della mia carriera, stravolgendo la concezione comune. Proseguendo, non intendo descrivere le tappe prettamente agonistiche, poiché sono sempre state in secondo piano. È naturale che, nel momento in cui ottenevo buoni risultati ho affrontato le fasi classiche di selezione: giochi della gioventù, allievi, juniores, seniores, e via dicendo. Questa evoluzione, però, è avvenuta parallelamente alla mia crescita, affiancata ad altri impegni tra cui la scuola. Devo ricordare, comunque, che a diciotto anni – nella più completa incoscienza – ho tagliato un traguardo “giornalisticamente interessante”: nel 1982, ancora come juniores, mi hanno portato per caso a competere nei Campionati del Mondo e sono arrivata ottava, in un settore dive l’Italia non esisteva e le donne tantomeno! In seguito, per un certo periodo ho messo in secondo piano lo sport, seguendo altri istinti ed altri interessi. Dal distacco ho capito cosa realmente mi piaceva fare nella vita, così alcuni anni più tardi ho ripreso gli allenamenti, cosciente delle mia basi, per costruire a livello fisico e mentale i presupposti necessari ad ottenere risultati di alto vertice. Gradualmente sono arrivata sempre più vicino al podio e nel 1991 ho vinto le mie prime medaglie assolute ai Campionati del Mondo, fino ad arrivare all’apice del 1994 con una vittoria forse un po’ troppo grossa (la Coppa del Mondo, conquistata anche nel ’96; n.d.r.)

Come si decide di trasformare un passatempo in attività lavorativa? Per lei questa scelta è avvenuta dopo il momentaneo allontanamento dallo sci?

Si è trattato certamente di un passaggio graduale, legato alle mie reali capacità ed alle possibilità remunerative offerte dal mondo dello sci. Lo sport dei giorni nostri è un business: un atleta capace e che si sappia gestire riesce a raggiungere un profilo economico di tutto rispetto. Se ci si riferisce, però, al contesto degli anni passati le cose cambiano, tanto che gli sciatori erano costretti a lavorare d’estate per gareggiare d’inverno. Inoltre, il ruolo delle donne era di rimanere a casa a fare la calza, e questo fino a pochi anni fa! Il radicale cambiamento di mentalità – avvenuto anche per opera dei risultati agonistici – ha consentito il riscatto del settore sportivo femminile, ed ha incoraggiato la mia totale dedizione allo sci nordico. Di conseguenza, non è possibile identificare il momento preciso in cui lo sport è coinciso con il lavoro.

Il sorriso di Manuela Di Centa, che spesso ritorna piacevolmente alla memoria, nasconde qualche ricordo amaro?

Io ho sempre sorriso anche nel caso di una gara andata male, perché la mia filosofia valuta l’impegno e la sofferenza della competizione.. passato il traguardo io ero certa di avere dato il massimo di me stessa. Non ho mai interpretato lo sport come dolore per un risultato negativo. Il momento più brutto è stato certamente il periodo della malattia che mi ha colpito a livello tiroideo, debilitandomi a tal punto da non riuscire nemmeno a seguire il programma fissato dall’allenatore. La difficoltà nel capire cosa mi stesse succedendo, le critiche dei tecnici e dei giornalisti che dubitavano delle mie parole divulgando una presunta incapacità psicologica di accettare la supremazia delle avversarie, il trovarmi da sola ad affrontare una cosa che mi sembrava enorme e senza possibilità di uscita… tutto contribuiva alla perdita della grinta necessaria a reagire. Questo fino al ’92, quando avevo deciso di abbandonare l’attività agonistica; le cure mediche, invece, si sono rivelate efficaci e così l’anno seguente ho vinto tre medaglie… Infine, un pensiero legato alla sua terra… Quando penso alla mia terrà penso alla difficoltà. Ogni volta che uscivo da casa per allenarmi ed il programma prevedeva un’ora di “lento”, cioè di corsa tranquilla, mi trovavo dinnanzi ad una supersalita o ad una super-discesa, se prevedeva corsa in pianura non sapevo dove andarle a cercare, se era il turno degli esercizi in palestra non c’erano attrezzi sufficienti… La montagna è anche questo, non solo l’asperità delle rocce, dei sassi, dei torrenti che scorrono, il tutto compattato in poco spazio quasi a volersi togliere il respiro l’un l’altro. La difficoltà si incarna nella terra dove sono nata, sino al punto da rendere difficile la comunicazione tra gli stessi abitanti del luogo. Riflettendo a questo proposito, sorrido al ricordo del mio allenatore finlandese che, conosciutami nel periodo in cui abitavo a Milano, mi considerava una cittadina: da un lato mi incitava alla fatica disprezzando le comodità offerte dalla città, dall’altro mi rimproverava per l’andamento troppo sostenuto nella fase di corsa lenta. Quando tre anni dopo lo invitai a Paluzza, mi disse: “Adesso capire perché tu non fare mai lento!”.